Story-telling invendibili

francesca milani
4 min readJun 25, 2021

C’è un rumore di fondo quando leggo di sostenibilità. Un continuo proliferare di informazioni, lanci di prodotto, dichiarazioni d’intenti che spesso confondono più che chiarire.

È in questo moltiplicarsi della parola “sostenibilità”, di cui ogni settore si fa portavoce che cerco un senso, un fil rouge per definire il significato del termine che ora che è diventato oggetto del marketing, si confonde spesso con una strategia di posizionamento.

La mia non vuole essere una critica al marketing per sé. Io stessa sono una grande ammiratrice di quelle tecniche di convincimento, in cui si creano e si soddisfano bisogni nel tempo di un lancio di un prodotto.

Se penso ad Apple, o Nespresso, non posso che ammirare come abili product managers siano riusciti ad individuare (o per lo più a creare) un gap e a vendere una soluzione estremamente attraente per una larga fetta di consumatori.

Così come apprezzo la sagace creatività e il sense of humor delle campagne di Burger King, o l’acutezza e il senso del tempo in cui viviamo di Ikea.

Ma occorre ricordare che il brand, di per sé un entità inesistente, esiste solo nella percezione che gli diamo. Percezione che bravi artisti sono riusciti a costruire attraverso video, immagini, campagne che risvegliano emozioni e valori a cui vogliamo aspirare e che tutti noi vorremmo abbracciare per farci sentire meglio con noi stessi.

Chi non ha sognato la felice famiglia del Mulino Bianco o non si è sentito un atleta indossando un completo Nike?

Ma ora questo non basta più. In un periodo storico in cui siamo tutti portati ad andare oltre il nostro piccolo io, il marketing si è inventato il purpose. Ciò che era un semplice aspirazione individuale ora abbraccia tutta l’umanità e i brand si sono fatti portavoce di ogni movimento positivo.

Razzismo, diversità, inclusione, politica si sono spostati dalle aule parlamentari alle riviste di moda. Non sono più tematiche da affrontare a livello di sistema, ma azioni di marketing messe in piedi per vendere più prodotti.

È forse questo quindi il punto che crea confusione. La sottile linea tra l’interesse per l’umanità e i target di vendita.

Ciò che spesso dimentichiamo, offuscati da questo generale sentimentalismo, è che il claim è un mezzo, non un fine. La ragione per cui il marketing si muove è vendere, non cambiare il mondo.

Per quanto possiamo distaccarci da Friedman e da una visione puramente opportunistica del Business ( “The business of business is business”) non possiamo dimenticarci che le aziende e l’intero sistema economico di cui facciamo parte hanno come scopo (magari non unico) la crescita.

Uno stesso dei pilastri stessi della sostenibilità è la sostenibilità economica. Il business deve crescere per poter essere sostenibile, altrimenti fallisce.

Ma quando questa crescita deve continuare in modo progressivo ed esponenziale per soddisfare investitori ed imprenditori, allora devo creare costantemente bisogni e vendere aspirazione, così che il consumatore continuerà incessantemente a spendere per sentirsi soddisfatto.

Ma questa continua spesa / produzione è in netto contrasto con la sostenibilità, che si basa sul principio di slow economy: consumare meno, rallentare la produzione, diminuire lo spreco di risorse.

Quello che sfugge nella quotidiana informazione, nello scorrere instancabilmente i feed sui social media, nel leggere riviste di moda e nella campagne di marketing, è una presa di posizione vera, dove invece di parlare di materiali più sostenibili (o responsabili) o di animali che scorrazzano felici nei campi (visione abbastanza utopistica se pensiamo alla GDO moderna), si dica che cosa si sta facendo realmente per il nostro pianeta.

Perché se da una parte e’ sempre buona cosa usare materiali con un minor impatto ambientale, prendersi cura delle popolazioni più fragili o invitare i cittadini a votare contro Trump (posizione politica personale), le azioni veramente utili sono altre e vanno attuate lungo l’intera catena del valore. Occorre ridurre: l’emissione di Co2, i consumi di acqua, l’uso della plastica, lo sfruttamento dei terreni. Ridurre la voracità delle nostre vite e riabituarci al ritmo del mondo che è più lento del nostro nel ricreare le risorse che usiamo. Occorre rallentare.

E forse questo qualche brand dovrebbe dirlo: non è cosa consumiamo, ma come.

Gilian Tett, scrittrice e giornalista del Financial Times, dice che e’ importante ascoltare i non detti, i silenzi, per capire la realtà.

Cercando quindi quello che le campagne marketing non dicono scopriamo che le diseguaglianze stanno crescendo, alimentate da un capitalismo incessante, che le emissioni stanno ritornando ai livelli normali post covid, che il mare e’ sempre più pieno di plastica ed inquinato, che l’Amazzonia sta retrocedendo, che la biodiversità è a rischio.

Questi scenari pre distopici non sono certo territorio fertile per uno story- telling che spinga ai consumi, poiché sappiamo bene che nessuna collezione o prodotto che compriamo in un centro commerciale potrà in alcun modo frenare o invertire questo trend.

Questo è quello che i brand non dicono, questa è la slow economy sostenibile, che però è risaputo, non vende.

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francesca milani

I am a manager with multinational global experience in the fashion, sportswear industry currently working on reducing the industries’ impact on the environment